di Vito Marcolongo
Che futuro ci aspetta sulla sostenibilità fra crisi sanitarie e geopolitiche?
È vero che la soluzione non può venire dalla stessa mentalità che ha generato il problema?
È giusto che si investa in tecnologie spaziali invece di risolvere i problemi attuali che affliggono tutti?
Le soluzioni verranno da schiere di “nani” impegnati collettivamente nelle loro “miniere tecnologiche” o da qualche” titano visionario”?
Scenario Planning e sostenibilità
Ho utilizzato la tecnica dello scenario planning negli ultimi venti anni per aiutare imprenditori e aziende a mettere a fuoco le proprie decisioni strategiche in regime di incertezza. Un’incertezza che i primi cavalieri dell’apocalisse – pandemia e guerra (ma sta arrivando anche il terzo, la carestia…) – hanno acuito, mettendo sotto stress l’equilibrio della globalizzazione post guerra fredda.
La finalità degli scenari non è di predire il futuro, cosa notoriamente poco affidabile, ma di allargare il cono di esplorazione dei futuri possibili per consentirci di prepararci o anche allenarci a rispondere al futuro che si dipanerà nel tempo. O anche, per chi ne ha volontà e capacità, di disegnare il futuro che desidera.
Il punto chiave della costruzione degli scenari è la selezione di due driver ad alta incertezza attraverso i quali scoprire le quattro combinazioni che derivano dal loro incrocio come rappresentazioni estreme dei futuri possibili.
Per illustrare il processo prendiamo in considerazione due driver decisamente proiettati nel futuro. Come si vedrà il vantaggio maggiore degli scenari è la possibilità di collocare una serie di tendenze e di fenomeni in un fondale che aiuta a capirne meglio la natura e le implicazioni.
Driver 1: Come affronteremo il futuro? Associamo a questo driver due condizioni limite, entrambi plausibili per il futuro. A un estremo il paradigma estrattivo, ancora dominante nella cultura attuale, e che potrebbe sostanzialmente perpetuarsi anche nel futuro. All’altro estremo, il paradigma rigenerativo che sta facendo schiere di proseliti mossi soprattutto da emergenza climatica e diffusione dei rifiuti della plastica.
Driver 2: Dove collocheremo il nostro futuro? L’accelerazione impressa dal privato (Space X, Blue Origin, Virgin Galactic, ma anche Relativity Space e Firefly Aerospace), nonché l’affacciarsi di Cinesi e Indiani e altre nazioni asiatiche negli ultimi vent’anni alla conquista dello spazio, fanno si che la collocazione del futuro dell’Umanità al di fuori dell’astronave Terra non sia più solo un argomento da fantascienza. Sul “dove” troviamo a un estremo un’Umanità ancora concentrata sul Pianeta Terra. All’altro, una Umanità in espansione fuori dalla Terra. Al di là della prossimità temporale, questo estremo deve essere visto come una lente di osservazione cha aiuta a capire meglio comportamenti e visioni con i quali già ora ci confrontiamo.
Ora combiniamo i due driver e vediamo quali scenari risultano.
Scenario 1: The Waste Land
La combinazione in basso a sinistra nella mappa corrisponde di solito allo scenario Business-As-Usual cioè a un futuro in continuità con il presente. Date le premesse, una cultura fortemente estrattiva porterà inevitabilmente a una t/T/erra desolata, privata degli elementi necessari a sostenere il genere umano.
Molti si sono cimentati nell’esercizio malthusiano di calcolare la “capacità di carico” della Terra, cioè la dimensione della popolazione che potrebbe vivere in equilibrio con l’ambiente. Ovviamente il risultato dipende dal modello di consumo di risorse: se tutta la popolazione umana attuale si uniformasse al più alto standard di vita di oggi, ci vorrebbero quattro Terre per supportarla.
In realtà, un regime completamente estrattivo corrisponde a una popolazione al minimo dei valori possibili, qualcosa che ci riporta indietro alle culture dei raccoglitori-cacciatori. Non certo il mito del buon selvaggio di Rousseau: sono stati i raccoglitori-cacciatori a distruggere la megafauna (mammouth e versioni giganti di cervi, canguri, struzzi ecc.) ben prima del capitalismo e della rivoluzione industriale: l’Estinzione di Massa del Quaternario dei grandi mammiferi risale a circa 10.000-15.000 anni fa quando la popolazione mondiale era stimata in 5 milioni di individui. Questo primo segno dell’Antropocene (l’era in cui l’impatto di Homo Sapiens ha iniziato a sentirsi sul sistema Terra) è la dimostrazione che l’Umanità ha un istinto estrattivo, prima ancora che una cultura, cioè tende ad allargarsi pericolosamente prima di comprendere il limite delle conseguenze del suo agire.
La tecnologia è l’unico responsabile: le altre specie subiscono l’inesorabile dinamica cacciatore-preda che smorza ogni eccesso e porta all’equilibrio prima dell’estinzione della specie predata, che rimane così una “risorsa rinnovabile”. Senza tecnologia avremmo dovuto subire una riduzione di popolazione prima dell’estinzione della megafauna. Ed è qui che interviene il salto tecnologico dalla clava e dalla selce all’agricoltura e alla domesticazione delle specie. Salto tecnologico che porta all’estrazione di altre risorse, alternative alla megafauna, che consente alla popolazione umana non solo di non diminuire, ma di crescere poi esponenzialmente di salto tecnologico in salto tecnologico, identificando sempre altre risorse da estrarre.
Ondate di caldo, incendi e inondazioni di proporzioni inusitate, pandemie a ripetizione, innalzamento del livello dei mari, flussi migratori, conflitti, crollo dei sistemi sociali e politici: in questo scenario rientra la vendetta di Gaia, la suggestiva idea che la Terra stia reagendo al parassita Homo Sapiens rendendogli la vita progressivamente impossibile, disaccoppiando il destino della specie umana dal resto della biosfera.
Scenario 2: Brave Green World.
Nei decenni passati c’è stata molta preoccupazione per la bomba demografica, ampiamente giustificata da un andamento come questo.
, in effetti, la crescita demografica è ancora in corso. Ma sta intervenendo un meccanismo di feedback per il quale, allo sviluppo del benessere, corrisponde in modo sistematico la riduzione del tasso di natalità ben sotto il valore di 2 figli per donna. Noi occidentali (e nell’Occidente oggi mettiamo dentro anche Giappone, Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan) stiamo andando incontro all’estinzione per primi. Ma anche i Paesi in via di Sviluppo stanno imitandoci man mano che, appunto, si sviluppano dal punto di vista economico.
E’ probabile che la popolazione mondiale arrivi a un picco di circa 10 miliardi per poi decrescere significativamente già entro questo secolo. Trovata la soluzione? Finalmente l’Umanità ha messo in atto un meccanismo di autoregolazione per trovare un suo equilibrio ecologico?
A questo punto dovremmo iniziare viceversa a preoccuparci, insieme con Elon Musk, dell’estinzione del genere umano. Ma risolveremo il problema con uteri artificiali – come immaginato da Aldous Huxley nel suo Brave New World, 1931 – o con la clonazione, alla quale cosa ci stanno preparando dal punto di vista socio-etico i movimenti LGBTQ+ nella loro richiesta di accesso alla ma/pa/*/ternità.
Peccato che non abbiamo il lusso di permetterci di aspettare: con il modello di consumo attuale generalizzato a tutta la popolazione ci vorrebbero almeno sei Terre per soddisfare i bisogni di una tale popolazione (almeno tre certe entro il 2050 quando la classe media mondiale supererà i 4 miliardi di individui).
Se è vero che l’apprendimento è la base biologica per lo sviluppo di una cultura, a furia di sbagliare si dovrebbe imparare: le conseguenze (spesso ma non sempre) inattese del nostro operare rinforzano il feedback con una tensione che corregge progressivamente l’istinto estrattivo per portarlo verso una cultura di sostenibilità fino alla massimizzazione della rigenerazione.
È il concetto di passare da un paradigma lineare di estrazione, colpevolmente senza limite, alla consapevolezza di un paradigma circolare che idealmente congela lo stato di estrazione al minimo indispensabile.
La transizione verso questa cultura vanta numerose iniziative indipendenti che si sono sviluppate nel corso degli anni e la cui origine, o comunque, pietra miliare, è il rapporto del Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo (1972). Oggi tutte queste iniziative stanno progressivamente convergendo su:
- i 17 obiettivi dell’ONU per lo sviluppo sostenibile, che riguarda tutti i soggetti pubblici e privati
- la triplice linea di azione ESG (Environmental, Social, Governance) per il mondo produttivo e finanziario
È fondamentale osservare che in entrambi gli schemi si dà adeguata rilevanza alle componenti non ambientali. In altri termini non è possibile passare da un modello estrattivo a un modello rigenerativo solo attraverso la tecnologia: è invece richiesto un parallelo e profondo cambiamento culturale che investe la società in tutte le sue componenti.
Il dualismo è in questo caso fra cultura estrattiva e cultura inclusiva, ma la dinamica è proprio di tipo rigenerativo.
Nel loro libro fondamentale, Perché le nazioni falliscono (2012), Acemoglu e Robinson espongono la tesi che la prosperità è strettamente legata alla creazione e al mantenimento di istituzioni politiche e economiche di tipo inclusivo (massima partecipazione e ricambio, minimizzazione delle elite), dove invece istituzioni estrattive (che escludono tutti, salvo le elite, dal beneficiare dei risultati delle attività economiche) portano al fallimento o comunque alla povertà. Una tesi che sembra spiegare bene sia il crollo dell’Unione Sovietica sia il sottosviluppo cronico della maggior parte dei Paesi Sud-Americani e Africani.
La rigenerazione è il meccanismo dinamico che consente una continua decomposizione e ricomposizione dell’assetto di potere politico e economico (l’equivalente della distruzione creatrice di Schumpeter, meccanismo alla base dell’innovazione) che previene la formazione di elite stabili che finiscono per estrarre valore dal resto della popolazione.
Passare a un modello rigenerativo significa quindi mettere in atto delle dinamiche non lineari tipiche degli esseri viventi e degli ecosistemi, rivedendo assunti fondamentali e architettura del nostro modello di sviluppo per diventare sempre più antifragili, ad esempio attraverso il decentramento gerarchico e l’autonomia funzionale delle comunità locali.
Parlando di titani, c’è sicuramente un imprenditore che si può ergere a icona di questo scenario: Bill Gates. Migliorare l’assistenza sanitaria e ridurre la povertà estrema sono gli obiettivi centrali della sua fondazione filantropica. Interessante notare che l’interesse per le deiezioni umane ha anche sempre più una motivazione di riciclare una quantità enorme di materiale riutilizzabile ai fini della fertilizzazione riducendo il carico dei fertilizzanti chimici.
Scenario 3: The High Frontier
Abbiamo esaurito le risorse, la Terra diventa inospitale.
1978: Gerard K. O’Neill, fisico di Princeton, pubblica “The High Frontier” (Colonie umane nello spazio), creando una visione tecnicamente plausibile di un futuro vicino in un ambiente artificiale chiuso, più o meno a metà strada fra la Terra e la Luna. Una riedizione aggiornata dell’Arca di Noè per salvarci dal diluvio dei problemi di un ecosistema fuori controllo.
1991-1993: Biosphere 2: 8 persone vivono per due anni in una cupola nel deserto dell’Arizona per dimostrare la fattibilità di un ecosistema chiuso autosufficiente (con qualche inevitabile deroga…).
2000: Jeff Bezos, studente di O’Neill negli anni ’80, fonda Blue Origin la cui visione è “consentire un futuro in cui milioni di persone vivranno e lavoreranno nello spazio a beneficio della Terra. Per preservare la Terra, Blue Origin ritiene che l’umanità dovrà espandersi, esplorare, trovare nuove risorse energetiche e materiali e spostare nello spazio le industrie che stressano la Terra”. Effettivamente una visione ancora in parte estrattiva, ma fondamentalmente, di necessità, estremamente rigenerativa.
Una colonia umana nello spazio, cioè una stazione spaziale ordini di grandezza più grande della ISS (International Space Station) e con una gravità simulata, essendo un sistema tendenzialmente chiuso, ha tutta la necessità di massimizzare la rigenerazione delle risorse, avendo altrimenti il serio problema di rifornirsi di materiali con un costo e una disponibilità problematici.
Le esperienze eseguite – Biosphere 2 e altre che sono seguite – hanno dimostrato che il delicato metabolismo di un sistema artificiale non è semplice da realizzare, ma sono un esempio concreto di una mentalità diversa, rigenerativa fin dall’elaborazione del “concept”, in cui tutte le risorse devono essere considerate rinnovabili per definizione.
Ragionare e progettare sistemi di questo tipo obbliga ad adottare un punto di vista estremamente utile anche per sistemare le cose sull’astronave Terra.
Scenario 4: Don’t Look Up
Una cometa in rotta di collisione con la Terra. Politici e media negazionisti che invitano a “non guardare su”, finché l’irreparabile accade. Una sarcastica metafora del nostro recente passato, del presente e del futuro prossimo in cui un imprenditore tecnologo (mix di Jobs, Musk, Bezos) prima assicura di poter annullare la minaccia frammentando l’asteroide con esplosioni controllate (in realtà con lo scopo di “estrarre” tutti i minerali rari per le sue iniziative imprenditoriali). Poi, fallendo l’operazione “salviamo la Terra”, parte con una navicella spaziale carica di super-ricchi ibernati per conquistare un nuovo pianeta sul quale ricominciare la civiltà umana: un nuovo pianeta vergine su cui riprendere l’estrazione da zero.
Eccessi della satira? In questi ultimi anni nella cultura anglo-sassone è comparso il termine “longtermism” per indicare una filosofia antropocentrica totalmente concentrata sulla visione a lungo termine del destino dell’umanità, dove per lungo termine si intendono secoli e millenni. In questa visione il concetto chiave è infatti il “rischio esistenziale”, cioè il rischio che minaccia di distruggere il potenziale a lungo termine dell’umanità. Un nobile fine per molti versi, che cerca di affrontare i rischi legati allo sviluppo tecnologico, in particolare all’Intelligenza Artificiale.
Ma con alcune conseguenze collaterali, figlie di una visione fondamentalmente “estrattiva”, che portano ad affermare, ad esempio che non dobbiamo “sprecare…” le nostre risorse limitate in “progetti di benessere di efficacia subottimale”, come alleviare la povertà globale e ridurre la sofferenza degli animali, poiché nessuno dei due minaccia il nostro potenziale a lungo termine, e il nostro potenziale a lungo termine è ciò che conta davvero.
Oppure che “salvare vite umane nei Paesi poveri può avere effetti a catena significativamente minori rispetto a salvare e migliorare vite umane nei Paesi ricchi. Perché? I Paesi più ricchi hanno sostanzialmente più innovazione e i loro lavoratori sono molto più produttivi dal punto di vista economico. Di conseguenza, sembra più plausibile che salvare una vita in un Paese ricco sia sostanzialmente più importante che salvare una vita in un Paese povero, a parità di altre condizioni”.
Una visione che parte dal presupposto che il cosmo è la “dote del genero umano”. La preoccupazione è di evitare il “rischio esistenziale”, tollerando eventualmente rischi gravi ma non esistenziali, garantendo la sicurezza del genere umano per assicurarci che il nuovo salto tecnologico ci consenta di estrarre risorse sempre più vaste per garantirci un futuro cosmico.
Una visione supportata da tre centri nelle più prestigiose università (Future of Humanity Institute di Oxford, il Center for the Study of Existential Risk di Cambridge, e il Future of Life Institute di Cambridge, Massachusetts) che hanno fra i loro finanziatori e referenti Elon Musk, Peter Thiel (co-fondatore con Musk di PayPal), Jaan Tallinn (co-sviluppatore di Skype) e Yuri Miner (investitore seriale di Facebook e altre aziende IT).
Musk che, come abbiamo visto, si preoccupa della diminuzione del tasso di fertilità lo fa non perché tema la diminuzione di clienti per le sue innumerevoli iniziative, ma perché rischia di mettere in crisi la sua visione a lungo termine, con un futuro che diventerebbe miseramente più vicino a Quintet che alle progressive sorti del “longtermism”. Un futuro che ha come passo fondamentale la conquista di Marte e, perché no, la sua trasformazione in una seconda Terra attraverso un processo di terraforming (concetto decisamente “estrattivo”) a base di esplosioni nucleari (almeno 10.000 testate della potenza attuale, si stima: potrebbe essere un modo per evitare l’inverno nucleare sulla Terra….)
Viene quasi il sospetto che tollerare un male “minore” (ad esempio la crisi climatica e la disuguaglianza sociale) per evitare un male maggiore (la mancanza conquista del Cosmo) porti a ragionare come Cortez, bruciando volontariamente le navi alle spalle. E realizzando una delle operazioni più “estrattive” che la storia ricordi e che tuttora pregiudica lo sviluppo di molte nazioni sudamericane.
Cosa manca?
Cosa manca in questi scenari? Il ruolo dell’Intelligenza Artificiale Forte (quella che si potrebbe impadronire dell’Umanità) e la ricerca dell’immortalità. Dove collocarli? Estrattivi o Rigenerativi? Soluzioni per un equilibrio duraturo sulla Terra o indispensabili abilitatori per la conquista dello spazio?
Per il momento basti ricordare che su questi temi i titani si dividono.
Da una parte Bezos, Page e Brin di Alphabet, Larry Ellison di Oracle e poi Thiel, cofondatore di Pay Pal con Musk, e altri che investono generosamente in start-up com Altos Lab e Calico alla ricerca dell’immortalità, o comunque all’estensione della vita media.
Dall’altra Musk, che con Bezos ha un pessimo rapporto anche per motivi di concorrenza e posizioni politiche, che non solo irride al tentativo ma ne denuncia le pericolose conseguenze: come riuscire a innovare e rinnovarsi con una popolazione di matusalemme?
Conclusioni.
L’istinto estrattivo è parte della nostra natura (animale). È autoregolato negli ecosistemi naturali: la tecnologia tende invece a rompere l’autoregolazione, ma consente contemporaneamente di spostare la soluzione a un altro livello di estrazione.
il punto chiave per l’evoluzione è di riuscire a dominare l’istinto estrattivo attraverso una cultura rigenerativa e non sistematizzare invece l’istinto estrattivo in cultura estrattiva, molto più pericolosa perché consapevole, che lo porti oltre il limite inevitabile dell’autodistruzione o dell’estinzione.
Chiave di entrambe queste culture è la tecnologia, da sempre causa e soluzione di problemi.
Abbiamo bisogno di più tecnologia o di meno tecnologia? L’affermazione di Einstein che un problema non può essere risolto allo stesso livello di conoscenza che l’ha creato non è un distillato di saggezza, ma un’osservazione antropologica, alla radice dell’innovazione tecnologica.
Per risolvere i problemi che abbiamo creato dobbiamo spostarci a un livello superiore di conoscenza e di tecnologia.
Il punto chiave è: come ci spostiamo di livello?
Oggi l’unica soluzione praticabile è di comprendere sempre meglio e farci ispirare dai meccanismi che presiedono agli ecosistemi naturali e che li rendono intrinsecamente antifragili, cioè capaci di migliorare quando sottoposti a stress.
Guardare oltre i confini della Terra è un esercizio utile a capire e testare l’ingegnerizzazione di questi meccanismi artificiali.
Avremo bisogno di visionari in grado di sfidare i confini del presente, ma filtrati attraverso una cultura rigenerativa e di istituzioni inclusive che sappia costantemente guidare il cambiamento tecnologico.
E, questo, contemporaneamente su tutte e tre le dimensioni dell’ambiente, della società e del suo governo.
Nota finale di metodo…
Gli scenari servono a costruire futuri plausibili sulla base della conoscenza attuale. Ma riconoscono di non poter escludere l’elemento imprevedibile della “wild card”: chissà che, come in Trascedence con Johnny Depp, non arriviamo a fondere la nostra coscienza con la rete per trasferirci, attraverso Neuralink di Musk, definitivamente nel Metaverso di Zuckenberg….