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L’impresa anti-fragile

14 Gen 2022

Per sfidare i continui cambiamenti, le imprese devono sviluppare un modello per adattarsi velocemente, facendo dell’innovazione il cuore della loro cultura e delle persone la prima leva competitiva.

di Elena Murelli e Vito Marcolongo

Da alcuni anni stiamo attraversando una tempesta perfetta, di inaudita potenza ed effetti collaterali diffusi su ampia scala. Raramente si era assistito a una crisi di dimensioni mondiali, nata da tensioni finanziarie prima, ma abbattutasi poi con tutta la sua forza su sistemi economici e industriali che credevamo consolidati, così che il risultato è stata una messa in discussione di un intero paradigma economico e industriale, dei suoi modelli organizzativi e, non da ultimo, del valore e ruolo stesso delle persone. Gli effetti di questa tempesta perfetta si sono abbattuti con maggiore violenza su quei sistemi nazionali che più di altri soffrivano di una congenita rigidità; non a caso i paesi europei, e in particolare il nostro, hanno pagato e tuttora stanno scontando un conto molto salato sia in termini industriali sia occupazionali.

INCONTRO E NON CONTRO IL CAMBIAMENTO
Il nuovo contesto competitivo è sempre più complesso, dinamico e turbolento. Il vantaggio competitivo è costantemente rimesso in discussione con forte imprevedibilità dei cambiamenti che accadono. Quale tipo di cultura è necessaria per fare bene in questo contesto? Recentemente Nassim Nicholas Taleb ha introdotto il termine di anti-fragile proprio per indicare una capacità non solo di resistere alle sollecitazioni ripetute e agli impatti improvvisi (due caratteristiche “passive” che nella terminologia tecnica sono dette “resistenza alla fatica” e “resilienza”), ma addirittura di beneficiare di queste sollecitazioni per rendersi più  adatti alla competizione, metabolizzando il cambiamento esterno, anche violento, e di trasformarlo attivamente e positivamente in nuove proposte. In questo senso, anti-fragile è una cultura che va incontro al cambiamento, lo ricerca attivamente, invece di sottrarvisi. Una cultura che si espone alla competizione e ricerca una competitività basata sulla capacità di rinnovare incessantemente – non temporaneamente, non occasionalmente – il vantaggio competitivo attraverso una capacità di innovazione permanente, che sa interpretare le condizioni al contorno in costante evoluzione.
Ebbene, nell’attuale contesto che stiamo attraversando, le imprese, soprattutto le Pmi, hanno sofferto per l’intrinseca scarsa propensione ad adattarsi alle difficoltà congiunturali, anche per la rigidità degli schemi su cui erano – e molte ancora lo sono – costruite. Oggi occorre ripensare a fondo la struttura dell’impresa, i suoi paradigmi, la sua visione, sforzandosi di adottare un modello anti-fragile, in grado rapidamente di riadattarsi alle mutate condizioni di mercato e sempre in grado di esprimere le sue potenzialità. L’innovazione diventa allora non più un processo per introdurre nuovi prodotti o servizi o per adottare nuove tecnologie, ma la cultura stessa dell’impresa. E se è vero che la cultura si fonda sulle persone che la interpretano e la rendono viva, il collante, la linfa vitale di questo processo sono le persone che operano nell’impresa, che debbono essere valorizzate, aiutate a crescere e capire il nuovo ambiente in cui operano, e fatte sentire parte attiva della sfida da giocare.

LE IMPRESE ITALIANE BEST PERFORMER
L’ultima in ordine di tempo a essere stata selezionata e premiata per la forte capacità innovativa nella valorizzazione del capitale umano e per averne fatto un driver d’innovazione per la crescita del business è la Iscom Spa – azienda nata nel 1964, attiva a livello internazionale nel settore delle costruzioni. La società è stata insignita della menzione per la categoria “Humanistic Innovation” del “Premio Le Tigri” del 2013, il riconoscimento giunto alla sua quinta edizione, rivolto alle Pmi, società di capitali e gruppi non quotati, che hanno avuto la capacità di creare soluzioni strategiche in grado di garantire la crescita e il mantenimento di positivi indicatori economici e finanziari anche nel periodo delta crisi economica.
Il “Premio Le Tigri”, promosso da Ria Grant Thornton Spa, è stato realizzato con il contributo di Banco Popolare, First Capital e Quaeryon. La motivazione del premio assegnato a Iscom recita «Per un’azienda che sa coniugare crescita e capitale umano, attraverso la condivisione dei propri risultati con le risorse umane, trasformando un sistema premiante in un momento di compartecipazione della vita aziendale».
Prima di Iscom il riconoscimento era andato alla Dolfin, azienda dolciaria catanese nata nel 1914, che produce e commercializza in tutto il territorio nazionale e all’estero prodotti in cioccolato e, nella prima edizione, la Casone, produttrice di contenitori in plastica rigida per il settore chimico, edilizia e raccolta di rifiuti e il settore alimentare.

UN NUOVO APPROCCIO PER LE IMPRESE
Esiste una via per l’imprenditoria italiana, soprattutto per la sua colonna portante fatta da milioni di Pmi? Nella nostra esperienza abbiamo sviluppato da alcuni anni un nuovo approccio, che abbiamo volutamente chiamato Humanistic Innovation, in cui sono le persone, prima di tutto, a costituire la leva del rilancio e della riconversione industriale e tecnologica delle imprese italiane.
In sintesi, si tratta di un approccio in grado di portare l’azienda a creare valore attraverso l’adozione di cambiamenti operativi, progettuali, organizzativi, tutti funzionali all’eliminazione delle disarmonie che ne caratterizzano l’operatività. Le persone – come dicevamo – sono sempre più al centro del modello la cui caratteristica è di attivare cambiamenti a diversi livelli della realtà aziendale. Parliamo, quindi, di un approccio sistemico, che interessa diverse dimensioni, discipline e attività  dell’impresa, che poggi sempre sul coinvolgimento operativo delle persone. Per avere successo questo approccio deve essere sostenibile anche dal punto di vista ambientale: in altre parole, allargare lo spettro e il perimetro di osservazione dell’impresa oltre i propri confini.

QUANDO L’INNOVAZIONE SI PUÒ DEFINIRE UMANISTICA
Ma per essere capaci di rinnovarsi e innovare mantenendo, anzi consolidando una forte identità, è necessario avere un modello che sia fortemente radicato nella comprensione delle dinamiche valoriali e comportamentali delle persone. Delle persone che in azienda, a tutti i livelli a partire dall’imprenditore, lavorano per creare l’innovazione (le risorse umane); delle persone che fuori dell’azienda sono sempre più parte integrante di un ecosistema dinamico che contribuisce direttamente e attivamente alla realizzazione dell’innovazione (la catena di fornitura); delle persone che adotteranno i nostri prodotti e i nostri servizi (i clienti); delle persone che subiranno l’impatto dell’innovazione (la società); delle generazioni che verranno, il cui futuro stiamo disegnando attraverso le innovazioni che oggi portiamo sul mercato. La creazione di valore deve essere a somma positiva per tutto il sistema che viene interessato: non possiamo definire umanistica una innovazione che crei valore localmente (per pochi) a discapito della distruzione di valore per la collettività. L’assunto di partenza è che chi adotta questo approccio manageriale in grado di creare vantaggi economici e organizzativi maggiori e diffusi verso tutti gli stakeholders.
Funziona questo approccio? Nella nostra esperienza abbiamo riscontrato risultati incoraggianti. Non solo per la rinnovata dinamicità e vitalità dell’impresa, ma anche per la qualità intrinseca che il cambiamento ha saputo portare nella struttura organizzativa. Indispensabile è la condivisione di un’agenda strategica corale, che identifichi problemi, soluzioni, interventi, persone coinvolte, responsabilità e riconoscimento del merito.

UN MODELLO ADATTO ALLE PMI
Il modello della Humanistic Innovation, che sicuramente può adattarsi anche a grandi multinazionali (pensiamo al kyosei di Canon o alle visioni del futuro di Google), è straordinariamente adatto alle nostre piccole e medie imprese. L’appartenenza a un ecosistema aperto ma con forti vincoli relazionali, a una cultura diffusa del radicamento territoriale ma con capacità di assorbire elementi nuovi e, per alcuni versi, la dimensione stessa, comportano una maggiore consapevolezza del valore sociale dell’impresa e dei suoi impatti. Non è infine estranea a questo modello una forte sensibilità per la bellezza che si può esplicare anche nella reinterpretazione attiva di modelli manageriali anglosassoni e giapponesi (lean thinking), attraverso l’equilibrio e la pulizia delle forme rinascimentali. È la sensibilità alla bellezza che porta l’imprenditore a tenere conto dell’impatto delle proprie costruzioni sul territorio o che espone opere d’arte nei laboratori e anche negli stabilimenti produttivi o che partecipa attivamente alla riqualificazione del territorio ove opera.
Le imprese che hanno condiviso questo modello e lo stanno con successo adottando sono espressione del tessuto produttivo italiano, basato su Pmi, fortemente vocate all’export, capaci di presidiare da decenni nicchie tecnologicamente molto avanzate, ma il cui paradigma entrato in crisi con la bolla speculativa del 2007-2008 e con gli effetti deviami della concorrenza dei paesi emergenti. La mutata dinamica internazionale, basata su una riduzione spasmodica dei costi di produzione, da un livellamento della qualità e da una congiuntura creditizia più complessa, ha posto queste aziende, come molte altre del resto, innanzi alla triplice scelta: chiudere, vanificando decenni di tradizione imprenditoriale nazionale; cercare acquirenti esteri, perdendo un know-how tecnologico ancora oggi per molti versi unico; infine, cercare una nuova dimensione, un nuovo paradigma imprenditoriale che permetta di rigiocarsi la sfida su un mercato più complesso.

UN NUOVO PATTO PER LA CRESCITA
La Humanistic Innovation permette tutto questo, partendo dal vertice, dal cuore dell’impresa: il manager o l’imprenditore che ne è a capo, le cui scelte dovevano essere ripensate in uno scenario così difficile. Nei casi che abbiamo avviato, e di cui riscontriamo positivi ritorni sia industriali sia finanziari, il commitment interno è stato assoluto. La prima leva del cambiamento, per rendere la nuova struttura anti-fragile, sono state le persone.
Nessuno stravolgimento, nessuna purga a livello dirigenziale, solo un nuovo patto per crescere e ridefinire cosa l’impresa voleva essere e come equipaggiarsi per la sfida. In questa dinamica la metabolizzazione del cambiamento garantisce anche la capacità di reagire alla perdita di collaboratori importanti attraverso l’innesto di nuove persone che scopriremo portatori di nuovi punti di vista e di nuove competenze. Questo percorso implica anche una rilettura del proprio modello di business, fino ad allora, sostanzialmente adeguato al mercato e alle dinamiche della sua espansione, ma divenuto tremendamente inadeguato in un contesto dalle fortissime tensioni. In definitiva, rinegoziare le coordinate competitive e le regole di ingaggio interne.
In conclusione, perché crediamo nella Humanistic Innovation? Siamo convinti che la crisi di cui stiamo vedendo ancora oggi gli effetti sia dovuta a molte cause, tutte caratterizzate dalla prevalenza di elementi esterni, finanziari, produttivi, congiunturali. Si è perduta, e crediamo sia stato un errore, la centralità della persona, grazie alla quale affrontare le complessità che viviamo. Del resto, in questo periodo, alcuni imprenditori – anch’essi espressione dei modelli di business e di prodotto che hanno reso famosa l’Italia nel mondo – hanno comunque saputo vincere la sfida dei mercati internazionali, insistendo molto sull’elemento del capitale umano, dell’economia positiva.