Molto spesso sono chiamata dai miei clienti a facilitare processi di cambiamento. Capita che, nel momento in cui arrivo, alcune – o molte cose – siano già state fatte per ottenere la trasformazione desiderata e, se è stato ritenuto necessario fare un ulteriore tentativo, significa che il risultato ottenuto non è soddisfacente.
Questa situazione mi ha sempre generato una certa ansia perché il livello di frustrazione dell’organizzazione è alto, i messaggi hanno subito un certo logorio, le persone hanno attivato tutti i meccanismi difensivi di cui dispongono e sono stanche, ma, soprattutto, sento forte la responsabilità di fare la differenza e cercare di dare un contributo che inverta la spirale discendente.
Tutto questo è sì molto impegnativo, ma anche molto interessante!
Ho anch’io vissuto importanti trasformazioni personali e professionali e so quindi che si tratta di un percorso complesso e profondo. Non facile insomma.
1. La prima cosa da cui parto è capire che ‘tipo di sfida’ è in atto. Il Professor Ronald Heifezt della Harvard University, ha definito le sfide possibili in 2 tipologie:
- sfide tecniche, ovvero quelle sfide per le quali l’insieme di competenze e abilità necessarie per avere successo sono già esistenti, magari non sono note, ma fanno parte del mindset che abbiamo sviluppato e utilizzato. Occorrerà studiare, acquisire competenze esterne, fare di più – o di meno – qualcosa, ma non occorre una trasformazione profonda di sé.
- sfide adattive: richiedono invece un modo di vedere, pensare e sentire differente. Sono più profonde e necessitano, per trovare soluzioni efficaci, di ripensamenti importanti e più ampi del problema in sé; richiedono di rivedere le proprie convinzioni, valori, il modo in cui si è organizzata la lettura delle cose e di come accadono.
Molto spesso, la causa del fallimento dei processi di cambiamento è data dall’utilizzo di soluzioni tecniche per trasformazioni adattive. La complessità che si sta affrontando oggi, a tutti i livelli, ci propone continuamente sfide adattive. Molto spesso siamo smarriti rendendoci conto che le soluzioni sperimentate in passato non funzionano più.
Per capire la tipologia di sfida è importante l’osservazione. Non andare subito verso la soluzione, ma prendersi tempo – magari con un team misto, composto da consulenti, da alcuni dei leader che in azienda promuovono il messaggio di trasformazione e da collaboratori che dovrebbero essere ‘oggetto’ o ‘soggetto’ di questo cambiamento – provando a immaginarsi sulla balconata di un teatro e riportare quindi cosa si osserva sul palco (cosa va in scena), descrivendo attentamente sia le richieste che vengono fatte da più parti/direzioni, sia le azioni in atto o le tentate soluzioni. Creare un’immagine chiara e condivisa con tutti delle richieste, ma altresì degli abituali sistemi sia di risposta, sia di tentativo di soluzione è determinante per poter progettare qualsiasi tipo di ‘altra’ soluzione.
Cercare quindi di capire davvero il contenuto profondo della richiesta di cambiamento è il primo passo. Riconoscere che sfida viene lanciata alla cultura esistente è molto importante poiché spesso coloro che chiedono la trasformazione, tipicamente il vertice dell’organizzazione, sono loro stessi, del tutto involontariamente, parte determinante della non-trasformazione, poiché reiterano comportamenti e approcci che non consentono il salto di paradigma richiesto.
2. Successivamente è opportuno conoscere o riconoscere la propria forma mentis o forma mentis del gruppo.
Secondo Carol Dweck ciascuno di noi ha un proprio modo di interpretare le sfide, le critiche, gli eventi, determinato dalla forma mentis (o mindset) che ci porta a leggere quello che accade intorno a noi in un modo o nell’altro:
- la forma mentis statica ci porta a enfatizzare le inadeguatezze, rischi, paure e attivare meccanismi difensivi. Forme mentis (individuali e/o collettive) statiche non consentono di fare quegli ‘spostamenti’ necessari alle sfide adattive;
- la forma mentis dinamica attiva comportamenti e atteggiamenti orientati al miglioramento, al ri-adeguamento delle nostre strategie, alla possibilità di espandere le nostre capacità, ha una sua naturale curiosità a sperimentare il nuovo e il diverso.
La buona notizia è che l’utilizzo di una o dell’altra forma mentis non è un atto determinato dal carattere e quindi impossibile da modificare, ma una scelta consapevole e responsabile che ciascuno di noi può fare.
Oggi è chiaro che tutti noi nasciamo con una certa dotazione, ma abbiamo ampi spazi di allenamento per continuare lungo tutto il corso della vita ad apprendere e sviluppare il nostro cervello; quindi, anche se le attitudini e il temperamento ci fanno tendere a un comportamento pessimista o vittimistico, abbiamo tutte le possibilità di sviluppare un approccio costruttivo e di sfida positiva di fronte alle difficoltà.
Per capire la tua forma mentis un veloce esercizio è il seguente:
a) Dedicati 10 minuti di vero stop dalle cose che stai facendo. Scegli una comoda poltrona e azzera le possibili fonti di distrazioni. Prendi un foglio e una matita e lascia vagare la testa. Ascolta tutto quello che ‘la voce nella tua testa’ ti dice e scrivi senza darle una regola o dei vincoli, ma lasciandola andare liberamente.
b) Rileggi quello che hai scritto, senza cercare significati particolari, ma solo per riconoscere la voce nella testa.
c) Ora pensa a un problema, a una sfida difficile che devi affrontare e scrivi le tue riflessioni, gli aggettivi che ti vengono in mente. Segui sempre in modo libero il fluire dei tuoi pensieri anche se ti appaiono contraddittori, strani.
d) Rileggi: i tuoi pensieri sono più da mente statica o dinamica?
Questo lavoro di consapevolezza di sé è molto importante per decidere come affrontare il processo di allenamento e trasformazione della propria forma mentis in modo da generare risposte comportamentali nuove.
La messa a fuoco della forma mentis di un gruppo o di un’azienda è un’interessante chiave di accesso alla sua cultura e ai suoi valori.
3. Si è allora pronti al terzo passaggio che è quello creativo e adattivo.
La consapevolezza consente di prendere il proprio modo istintivo di sentire, vivere e agire e gestirlo come fosse un oggetto ‘altro da noi’ e quindi decidere quale nuova forma dargli. In questo modo il processo trasformativo non viene vissuto come una minaccia o una violenza, non attiva difese, ma rende protagonista attivo il soggetto del nuovo disegno da dare a se stesso nel suo ambiente professionale. Le soluzioni scaturiranno quindi in modo non convenzionale attraverso un confronto ricco fra interlocutori diversi.
È importante che il viaggio di ‘comprensione collettiva, consapevolezza e re-design’ lo si faccia con un elevato coinvolgimento di attori chiave, o agenti di cambiamento, poiché la semplice osservazione, seppur fatta da un consulente ‘stellato’ che poi importa soluzioni trasformative ‘sue’ è sempre misera dal punto di vista dell’ingaggio e del risultato duraturo nel tempo. La trasformazione implica un vero lavoro di squadra dove il nostro ruolo è davvero di semplici facilitatori o ispiratori e non di guru.
Anche il nostro ruolo, in fondo, richiede una sfida adattiva…..o no?
Fonte: https://www.linkedin.com/pulse/sfide-tecniche-e-adattive-il-cambio-di-mindset-elena-murelli